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Il mio abitacolo

domenica 22 luglio 2012

Effetti dell'amore di Dio


Venerdì mattina, per caso, mi sono trovata tra gli accompagnatori di don Ovidio, vecchio prete della Bassa che ha chiesto un autista per andare a vedere i paesi dove è stato parroco e che sono stati colpiti dal terremoto.
A parte l’inizio, molto pittoresco, in cui siamo incappati in un prete arrivato direttamente dal Mondo Piccolo di Guareschi: aveva lasciato sulla porta della canonica un biglietto che avvertiva che lo si sarebbe trovato nel campo. Infatti è arrivato, dopo i nostri richiami, con una tuta da meccanico (tute notoriamente indossate per il lavoro anche dai contadini): rugoso, calloso, gli occhi piccoli ed acuti dei nostri vecchi, semplice, silenzioso e sommesso nel pronunciare le poche parole che ha detto.
Don Ovidio, invece, essendo quella la parrocchia in cui è stato più tempo, era largo, lirico, commosso e in vena di confidenze. "Qui c’era la mia camera, l’albero piantato davanti alla chiesa lo mise mia sorella"… poi una serie di domande su persone della zona di cui l’attuale parroco, forse perché preso di sorpresa e desideroso di tornare ai propri affari, non sapeva dire nulla, non ricordava nemmeno i nomi.
Ce ne andiamo mentre il prete contadino butta lì a mo’ di scusa che si deve preparare per andare via.
Arriviamo nella piazza del piccolo paese, le case transennate, alcuni camper di cui, faccio notare io, uno della CGIL.
“Andiamo a salutare, non importa se sono della CGIL, è sempre gente mia”, mi risponde don Ovidio.
Scendiamo dall’auto.
Ed inizia lo spettacolo.
Rimango lì,  una piccola scossa di stupore e commozione mi attraversa; da qui in poi so che dovrò sgranare gli occhi e gustarmi ciò che accade.
Infatti don Ovidio si avvicina alle persone, le guarda negli occhi, si scrutano qualche secondo in silenzio, qualcuno domanda: “Mi riconosce?”, qualcun altro gli si fa incontro contento, poi il nome, il sorriso, la domanda di don Ovidio sulle condizioni dei familiari, della casa, di altri del paese. Oppure sono le persone che incontriamo a raccontare, come a voler affidare al cuore di questo vecchio padre la vita propria e dei più cari. E don Ovidio, accoglie, si fa partecipe, dimostra di conoscere e ricordare tutte le persone che vengono citate e quelle che incontriamo di persona.
Continuiamo passando piano piano in auto davanti alle case di una via del paese dove don Ovidio ci dice di andare, evidentemente perché lì ha diversi amici, e infatti alcune donne, appena lo riconoscono all’interno della macchina, escono di casa e ci corrono incontro e si ripete la scena dei racconti, delle richieste di notizie su parenti e amici e così via.
Andiamo a Cavezzo, Cavezzo sventrata, Cavezzo che sembra un paese bombardato. Qui troviamo il parroco, seduto su una sedia di plastica, in mezzo ad un prato, davanti al baule aperto della propria auto: intuiamo di essere nell’ufficio parrocchiale.
Questo parroco si ferma volentieri a parlare con don Ovidio, poi ci mostra le foto delle distruzioni e ci indica come fare a passare vicino alle macerie con l’auto in modo da poterci rendere conto della portata del disastro.
Partiamo. Questo don ci ha lasciato un senso insieme di calore e di impazienza, di tristezza e di forza: certamente una persona estremamente sincera e umana.
Di nuovo persone che ci si fanno incontro riconoscendo don Ovidio, altre che lui va a cercare e che si fanno fuori da case o negozi, sorridendo, felici di rivedere il parroco che li ha battezzati, cresimati, sposati o a cui facevano da chierichetti quando erano bambini. Quando qualcuno vuole dire a me quello che sta vivendo, mi devo sforzare di starlo ad ascoltare e di rispondergli, ma preferirei tacere e guardare: non sono venuta a portare niente di mio, sono qui per riempirmi gli occhi dell’umanità ed il cuore della bellezza di questo vecchio prete.
Saliamo in auto e guardiamo, indicandoci a vicenda le varie rovine, senza altri commenti. E’ qualcosa che va solo conservato nel cuore e nella memoria. Io penso, sgomenta, che pochi mesi fa avevo accompagnato un’amica e la sua bambina da una pediatra proprio in centro a Cavezzo, e a Cavezzo ci sarò stata un milione di volte, ma non riesco a ricrearmi nella mente la fotografia di com’era.
Proseguiamo per Camposanto, dove la commozione di don Ovidio è più grande perché qui ha trascorso i primi anni di sacerdozio.
Ci fermiamo di fronte alla chiesa distrutta ed arriva in bicicletta un signore che si fionda sul prete, lo abbraccia e via a ricordare i vecchi compaesani e le loro storie da don Camillo, come quello che, per festeggiare la morte di De Gasperi, aveva bevuto tanto vino che poi, partito in moto dal bar, alla prima curva aveva tirato dritto, schiantandosi. Oppure quell’altro che era fissato con l’invasione dei cinesi e che ne parlava a tutti (anche al vescovo l’aveva detto, un giorno che era venuto in visita), e tutti dicevano che era matto. Però aveva avuto ragione perché adesso entrambi i bar di Camposanto (e non solo) li gestiscono dei cinesi.
E così, pieni di gratitudine, io per quello che avevo potuto vedere di umanità in azione, il don per aver rincontrato tanti amici, siamo tornati a casa.

Informazioni personali

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Tettonica (a zolle) era il mio soprannome all'università, tanti e tanti anni fa. Me lo ero affibbiato da sola (trovavo soprannomi per tutti) ed esprime di me l'aspetto fisico (abbondante ovunque, ma soprattutto nella parte superiore). Ho rispolverato questo nomignolo perché ultimamente è aumentata la mia sensazione di vivere in precario equilibrio, o, se volete, di poggiare su una bomba ad orologeria. Che poi sarebbe il mondo in cui viviamo.